Da: "Introduzione all'antimedicina" di Guido A. Morina, Edizioni EbookMorinaEditore.

La scienza della salute e del benessere.

(L'antimedicina è insegnata in specifiche Scuole di formazione, in seminari con frequenza in aula e corsi online, certificate dall'Università Popolare di Scienze della Salute Psicologiche e Sociali di Torino - UNIPSI)
Il Presidente UNIPSI, Dr. Guido A. Morina
L’antimedicina può essere definita come una modalità di gestione dell’esistenza, individuale e collettiva, fondata sull’idea che la ricerca in positivo del benessere, della salute e della qualità della vita deve essere posta al centro del comportamento umano e precedere quella per la cura e la preoccupazione per le malattie.

In positivo, quindi, l’antimedicina promuove una attenzione continua, costante, scientificamente fondata, sullo studio, sullo sviluppo e sulla applicazione pratica nella vita quotidiana di tutti gli aspetti che possono condurre al miglioramento della qualità della vita. Non si tratta banalmente di prevenzione, termine che rimanda sempre al concetto di malattia. Si tratta piuttosto di impostare la propria vita sulla ricerca del bene anziché del male e impegnarsi talmente in questo compito, da non avere più tempo e risorse da dedicare alla coltivazione del male.  L’idea, fondamentalmente condivisibile da chiunque sul piano teorico, e persino lapalissiana, è che sia più utile, proficuo e intelligente promuovere le condizioni che impediscono l’instaurarsi della malattia e il diffondersi della sofferenza umana in genere, piuttosto che limitarsi a cercare di riparare i danni dopo che questi si sono prodotti.  Più prestiamo attenzione al male, più lo andiamo a ricercare, più lo combattiamo, e più lo rendiamo forte.  Ci sono situazioni nelle quali al male occorre rispondere con il male o nelle quali, in qualche modo, occorre prestare ad esso tutta la nostra attenzione. Ma queste situazioni non possono essere estese ad ogni istante e ad ogni ambito della nostra vita, come la medicina moderna sta cercando di fare.

L’idea  più avanzata che sta alla base dell’ antimedicina è proprio quella di impostare la propria vita adottando uno sguardo, un’attenzione, una considerazione rivolta ai suoi aspetti positivi, anziché a quelli negativi.  Ciò non significa non dare il corretto peso alla prevenzione rispetto alle malattie, alle cure mediche quando esse siano necessarie,  ma piuttosto considerare le malattie e la medicina come uno dei tanti elementi che compongono la nostra vita, e non la vita stessa. La vita, quella vera, quella che merita di essere vissuta, è quella che inizia là dove la medicina cessa di agire. Se siamo costretti a fare ricorso alle cure mediche, ciò non significa che esse debbano regolare e condizionare tutta la nostra esistenza e tanto meno che le nostre risorse debbano essere dirottate principalmente verso la cura delle malattie, anziché verso la cura del benessere.

Nonostante tutta la nostra evoluzione, tutti noi ci portiamo dietro un’eredità storica, genetica, culturale e psicologica che resta ancorata all’imperativo dettato dall’istinto di sopravvivenza. Prima di tutto occorre sopravvivere, e solo quando tutte le minacce alla sopravvivenza saranno state eliminate, allora sarà utile, lecito e moralmente corretto occuparsi anche degli aspetti positivi dell’esistenza. È altrettanto chiaro che noi possiamo dedicare tutta la nostra vita alla ricerca del bene, studiarlo, coltivarlo, individuarlo e applicarlo ad ogni aspetto della nostra esistenza, ma è sufficiente un banale incidente, un infezione, un mal di denti per far crollare rovinosamente tutto quel sistema ben organizzato che doveva assicurarci salute e benessere. Tutto ciò, tuttavia, non significa che tutte le nostre attenzioni, tutte le nostre risorse, tutte le nostre energie debbano essere rivolte solo ed esclusivamente alla cura delle malattie. Anzi, fino a che non ci occuperemo della cura della salute e del benessere, quella delle malattie assorbirà tutte le nostre energie,  perché il male attira altro male, un atteggiamento negativo richiama altri atteggiamenti negativi,  in un circolo vizioso senza fine. La nostra stessa organizzazione mentale e la nostra struttura psicobiologica ci ha resi particolarmente abili nell’individuare le minacce alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere, piuttosto che le modalità con cui vivere in maniera più dignitosa e piacevole la nostra vita.

Se i problemi servissero ad essere risolti, a quest’ora ne avremmo dovuto risolvere una gran parte. In realtà non ne abbiamo mai risolto nessuno. Allo stesso modo, se le malattie servissero per essere eliminate dalla medicina, a quest’ora ne avremmo eliminate la maggior parte dalla nostra vita, mentre invece esse sono sempre di più, e per quante ne riusciamo a debellare, sempre di nuove si affacciano alla nostra esistenza.

Antimedicina contro chi?

Nonostante il prefisso anti  possa far pensare che essa abbia una finalità puramente di contrasto nei confronti di un sistema esistente, l’antimedicina intende assolvere al contrario una funzione propositiva nella direzione del bene. Essa però deve fare i conti con un sistema culturale e sociale nel quale tutto deve essere sacrificato sull’altare della lotta alle malattie, per cui non rimane spazio per prendersi cura della salute delle persone. Questo è il motivo per cui si è preferito definire questo approccio alla salute nei termini di anti, anziché di pro. Perché in questa fase dell’evoluzione umana occorre innanzitutto prendere coscienza della necessità di fare i conti con il passato e di combattere e distruggere tradizioni, credenze, luoghi comuni, idee obsolete e non più adatte al tipo di vita che gli esseri umani si preparano a vivere, e cioè una vita rivolta alla ricerca della felicità. Il cammino è lunghissimo e non se ne vede la fine, ed è per questo che continueremo a chiamare il nostro approccio antimedicina, fino a che non potremo abbandonarlo per quello molto più maturo ed evoluto di scienza della felicità.

Questa modalità di cura della salute e del benessere, quindi,  rifiuta di autoetichettarsi come una nuova forma di terapia, ed è per questo che preferisce qualificarsi innanzitutto per il suo carattere oppositivo e di contrasto al tipo di approccio alla vita che combatte - quello biomedico - piuttosto che definirsi per ciò che essa persegue. Il motivo di questa scelta sta anche nel fatto che l’ antimedicina deve la sua  nascita e il suo significato  all’esistenza e alla degenerazione della medicina. È dall’evoluzione della scienza medica che essa trae i suoi presupposti, in considerazione del fatto che la medicina moderna ha tradito i principi su cui si fonda, dedicandosi solo ed esclusivamente alla ricerca e alla lotta nei confronti di tutte le patologie, reali o immaginarie, anziché alla cura delle persone, della loro salute e del benessere.  Per fare ciò, la medicina avrebbe dovuto cooperare con le altre scienze dell’uomo, politiche, economiche, psicologiche e sociali. Ma questo avrebbe voluto dire cedere il monopolio della cura della salute e della malattia, porsi sullo stesso piano di altre categorie professionali e perdere quello straordinario prestigio che deriva dal fatto di essere l’unica scienza in grado di proteggerci in qualche modo dalla sofferenza, dalla malattia, e a ritardare il momento della nostra morte.

In teoria, se la medicina svolgesse davvero il suo compito, essa dovrebbe limitarsi alla medicina d’urgenza, a quella di pronto soccorso, alla chirurgia e alla cura tramite pochi farmaci “di urgenza”, e cioè da somministrare soltanto a seguito del verificarsi di incidenti, malattie in fase acuta dovute a fattori imponderabili e non prevedibili, o alla cura del dolore in tutte le sue forme.  Se la medicina si fosse occupata di salute almeno con lo stesso impegno con cui si è occupata di malattia, probabilmente sarebbero venute a mancare molte delle condizioni che favoriscono la diffusione di malattie di ogni tipo e che colpiscono praticamente tutti gli esseri umani.  I quali, senza ombra di dubbio, temono più di ogni altra cosa la morte e la sofferenza e sono disposti a qualunque cosa pur di illudersi di sconfiggerle, anche di delegare la gestione della propria vita a una specifica classe di professionisti,  i medici.  Così facendo, il potere della classe medica, a partire da quello della classe sacerdotale di cui è diretta emanazione, si è venuto a incrementare sempre di più. Per mantenere questo risultato, è però assolutamente indispensabile porre la cura della sofferenza e del malessere su un livello gerarchico molto superiore a quello della corrispondente cura della salute e del benessere. Fino a che gli esseri umani vivranno nel terrore di ammalarsi, la medicina deterrà il suo potere.  Fino a che la cura delle malattie resterà monopolio di una classe specifica di professionisti, allora tutti gli altri, qualunque attività svolgano, saranno sempre posti a un livello socialmente più basso di quello della classe medica. Non deve esistere nulla che neppure ricordi vagamente una condizione di cooperazione tra diverse scienze e discipline, pena la perdita della condizione di supremazia assoluta della medicina rispetto alle altre.

E così, la medicina ha posto alle proprie dipendenze prima la biologia e la chimica, trasformandole in scienze al suo servizio, e cioè per produrre farmaci o permettere la formulazione di diagnosi tramite esami di laboratorio. Poi è passata alla fisica, all’uso scientifico di forze, radiazioni, energie manipolate tramite apparecchiature sempre più sofisticate ma sempre al servizio della lotta senza quartiere alla malattia. In questo modo medicina e chirurgia hanno potuto avviare quel processo di medicalizzazione della società senza il quale l’antimedicina non avrebbe ragione di esistere.  È evidente che se la medicina fonda la sua unica ragione di esistenza sulla presenza della malattia, sarà suo interesse, neanche tanto paradossalmente, che le malattie siano sempre più e sempre più difficili da combattere. Questo atteggiamento dipende dalla mancanza, fino ad oggi, e ci si perdoni la presunzione, di un ‘antimedicina, e cioè di una cultura della salute che renda consapevoli del fatto che la vita merita di essere vissuta solo se rivolta alla ricerca del bene. In questa ricerca il ruolo della medicina è di fondamentale importanza, ma non può essere quello trainante né dettare le condizioni per la gestione della vita di ogni individuo.

In realtà, una società evoluta, equilibrata e matura non dovrebbe aver bisogno di un’ antimedicina, e cioè di un movimento d’opinione  che si configura come l’unica scienza della salute a nostra disposizione,  perché la scienza della salute, in tale società, dovrebbe avere un’importanza ben superiore a quella della scienza delle malattie.  Quest’ultima ha prodotto la nascita, lo sviluppo e la diffusione capillare di una vera e propria industria della malattia la quale, paradossalmente, sta coltivando il male in tutte le sue forme, anziché combatterlo come era nelle sue intenzioni. Ma fino a che la medicina pretenderà di accaparrare tutte le risorse possibili per la cura delle malattie, l’antimedicina sarà l’unica forza in grado di far riflettere sul fatto che la vita non può essere concepita soltanto come lotta senza quartiere alla malattia.  La sofferenza, le malattie, la morte, fanno parte della nostra esistenza, e l’antimedicina propone un approccio ad esse che non sia più di semplice cieco e irrazionale contrasto, ma di integrazione del loro significato all’interno della nostra esistenza. Si tratta di un cambiamento di paradigma culturale, e non si può pretendere neppure che sia facilmente comprensibile nei suoi presupposti, nei suoi contenuti e nei suoi intenti. Ma l’antimedicina nasce in un momento della storia evolutiva dell’uomo in cui  comincia a intravedersi la possibilità di dedicare la nostra vita alla ricerca della felicità anziché alla ricerca della sopravvivenza e alla lotta al male.

L’antimedicina si configura quindi come la scienza della salute che vuole riportare al centro dell’attenzione di ogni individuo e della società la cura della salute e del benessere. L’obiettivo è quello di travasare gradualmente risorse, energie, idee, denaro, tempo dalla dimensione della malattia a quella della salute,  dalla ricerca ossessiva di tutto ciò che di negativo si manifesta o si può manifestare nell’esistenza, per poterla combattere,  allo studio e all’applicazione pratica di tutte le strategie utili per migliorare la qualità della vita di tutti.  La ricerca di sempre nuove malattie e le malattie immaginarie sottraggono risorse a una ricerca ben più importante, che è quella della salute e del benessere. Questa ricerca non può essere condotta senza la collaborazione paritaria di tutte le scienze, umane e naturali, perché è sulla complessa relazione tra individuo e ambiente che si gioca la partita più importante per l’umanità. Fino a che rimarremo legati alla paura, a una concezione primitiva dell’esistenza umana, come ancora legata alla sola lotta per la sopravvivenza, alla paura mai contestualizzata del male e alla reazione irrazionale ad esso, come elemento da non comprendere ma soltanto da combattere, non potremmo mai migliorare la qualità della vita dell’umanità.

Caratteristica dell’antimedicina, come si può osservare fin da queste prime considerazioni, è la sua dimensione sociale, quasi totalmente assente nella medicina. L’idea che sta alla base dell’antimedicina è un’idea con forti connotati culturali, politici e sociali, prima che scientifici in senso stretto, sulla base della considerazione che la felicità, la salute, il benessere, sono condizioni che vanno ricercate e perseguite all’interno di una dimensione sistemica nella quale l’individuo non è soltanto, come per la medicina, un attuale o potenziale portatore di malattia, ma è parte della società, dell’ambiente, del sistema all’interno del quale agisce e con cui interagisce. Ciò significa abbandonare la concezione dell’individuo soltanto come soggetto isolato e dal quale, a sua volta, isolare quelle parti o quei processi biochimici da sottoporre al vaglio dell’indagine biomedica per eliminare la sofferenza che producono. La sofferenza va prevenuta ed eliminata, è chiaro, e questo è il ruolo della medicina. Ma la sofferenza è il risultato di un complesso di fattori innumerevoli e quasi tutti al di fuori del nostro controllo, ed è quindi prodotta dalla relazione tra l’individuo e l’ambiente e non da processi biochimici, fisici o meccanici da isolare all’interno dell’individuo, a sua volta isolato dal suo contesto sociale. Ci si ammala perché è la relazione con l’ambiente che è da correggere, e questa correzione implica un impegno, una competenza e un lavoro che vanno ben al di là del limitato ruolo della medicina.  Pensare che i problemi dell’umanità possono essere risolti semplicemente imparando a conoscere in maniera sempre più approfondita e dettagliata i processi fisici e biochimici che sarebbero all’origine delle malattie, significa chiudersi in un’ottica riduttiva e riduzionistica, isolando gli esseri umani dal loro ambiente e cercando di esorcizzare il male in maniera ingenua e infantile: distruggendolo anziché integrandolo nella nostra vita. L’antimedicina, quindi,  studia la relazione tra individuo e il suo ambiente perché è soltanto dalla comprensione di essa che può nascere il benessere.

Forse il limite ideologico e culturale della medicina che più di altri ostacola il progresso dell’umanità verso il miglioramento della sua condizione di vita, sta proprio nell’incapacità di comprendere che la rimozione delle cause della malattia e della sofferenza non produce di per sé, in maniera spontanea, una condizione di benessere. La medicina non è interessata al benessere: vive e prospera sulla coltivazione del malessere,  al punto da ritenere esaurito il compito di prendersi cura del paziente nel momento in cui ha prodotto la remissione dei sintomi della sola malattia della quale si è occupata. Si tratta di una concezione, come si diceva, molto primitiva e adatta a una società, come poteva essere quella di migliaia o anche di poche centinaia di anni fa, nella quale mancava quella minima condizione di benessere, data dal soddisfacimento dei bisogni primari, che permetteva di considerare meritevole di attenzione il perseguimento del benessere, anziché la sola eliminazione del malessere.