Per noi esseri umani (e, in base alla nostra convinzione, per le specie protette nella legge sulla protezione degli animali), l’esperienza interiore è associata a una certa coscienza. Per le piante non disponiamo invece di indizi che facciano ipotizzare una simile consapevolezza.

Il problema è che man mano che la nostra conoscenza della realtà progredisce, fatti che erano dati per scontati vengono totalmente falsificati dalle evidenze scientifiche, il che fa sospettare che, almeno in tema di questioni etiche e di rispetto e tutela della salute e del benessere, sarebbe opportuno assumere posizioni molto, molto prudenti, e  sempre a favore dei destinatari dell’intervento potenzialmente nocivo, doloroso o lesivo in genere. 

Nelle campagne, fino a pochi decenni fa, i pianti disperati dei neonati erano giudicati da molti come provenienti da esseri totalmente privi di coscienza e sensibilità, (“Lascialo piangere, così si rinforza i polmoni” era l’agghiacciante commento del genitore), e ancora oggi non sono pochi coloro che ritengono che anche creature a noi vicine, e di ordine superiore come i cani o i maiali, non soffrano realmente anche se maltrattate. 

Il fatto è che noi continuiamo a perseverare nell’errore di applicare i nostri parametri, i nostri modi di percepire la realtà, la nostra cultura e i nostri particolari processi psichici alle altre forme di vita, giudicandole degne di rispetto a seconda che esse dispongano o meno di requisiti che appartengono a noi umani. Se adottiamo una visione più ampia e profonda della realtà, non possiamo non riconoscere che è possibile che esistano altri tipi di intelligenza, altri tipi di sensibilità fisica e psichica, altri modi di interpretare e di vivere le sensazioni (come quelle di dolore, per esempio) e che tutte queste esperienze siano al di là della nostra portata cognitiva e della possibilità di farne l’esatta esperienza.

 

Quindi, poiché non abbiamo modo di immedesimarci in un pipistrello (si veda: Nagel, "Cosa si prova ad essere un pipistrello?), in un batterio o in una quercia, perché mai dovremmo dare per scontato che, solo perché ci assomigliano pochissimo e non comunicano con noi secondo le nostre modalità di comunicazione, questi esseri viventi non possano comunicare in altro modo, percepire gli stimoli in altro modo,  elaborare una loro “cultura” in altro modo, e quindi essere considerati dotati di una loro forma di coscienza (o di anima, se si preferisce) che noi non siamo in grado neppure di concepire, ma che merita assoluto rispetto? 

Insomma, pensare che un essere vivente possa essere considerato ” senziente” solo se dispone di un sistema organico-fisiologico complesso molto simile al nostro, di una coscienza e di funzioni cognitive simili alle nostre, di un sistema di percezione sensoriale e di comunicazione e linguaggio simile al nostro, è una posizione antropocentrica e patocentrica poco sostenibile sia scientificamente che filosoficamente.